Testi di Tiziana Lazzaretti. Foto di Roberta Lombardi e Tiziana Lazzaretti.

Un viaggio in Eritrea è l’incontro con l’architettura italiana degli anni Trenta e le macerie di conflitti recenti e lontani; un paesaggio aspro di montagne di sassi e terrazze, e il verde della foresta, gli azzurri cristallini del mare; i cammelli che compaiono, inaspettati, prima sull’ologramma del visto, poi sulle banconote, quindi per le vie del paese. 
E’ l’incontro con una cultura millenaria e il suo oblio; uomini e donne dalla pelle sfumata di nero, secondo l’etnia; bambini che hanno come divisa scolastica variopinti maglioncini, o rimasugli dei medesimi, a tutte le ore del giorno in cammino da e per la scuola, su e giù per le vie di città e montagna, con pochi libri sotto braccio e un flacone di plastica per l’acqua; anziani che non esitano a salutare in Italiano e a raccontare la nostra storia del secolo scorso.
Un viaggio in Eritrea è il fascino del familiare e dell’esotico che si incontrano, ti fanno sentire a casa e lontano da casa allo stesso tempo, seminano nostalgia.

Viaggiare in Eritrea si è rivelato abbastanza semplice per dei turisti fai-da-te come noi: nel 2008 c'erano davvero pochi turisti, anche perchè lo spettro della guerra civile è sempre dietro l'angolo. 
Molta gente parla italiano, anche perchè ad Asmara l'Italia finanzia scuole italiane dalla primaria alle superiori.
Il Governo consente di raggiungere solo alcuni luoghi del paese, anche perchè alcune aree sono minate.
Ci si può organizzare direttamente sul posto o contattare alcune agenzie di Asmara via email. 
Noi ci siamo affidati alla Explore Eritrea e ci siamo trovate molto bene. 
La prima cosa da fare è richiedere il permesso per uscire da Asmara all'Ufficio del Turismo, in Harnet Avenue. 
Il rilascio del permesso può richiedere anche un'intera giornata e va inoltrato sui moduli appositi, presentando il passaporto, elencando tutti i luoghi che si intende visitare e pagando una tassa di pochi euro.
Ad Asmara abbiamo pernottato nella Pensione Concorde, consigliata dalla Lonely Planet, semplice ma in ottima posizione e con personale veramente gentile e disponibile.

ASMARA

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All’arrivo ad Asmara le sensazioni si mescolano: l’organizzazione dell’aeroporto, con i numerosi addetti alle più irrilevanti incombenze, è propriamente africana; ma il centro cittadino è quanto di meno africano si possa immaginare. 

Lungo la via principale, Harnet Avenue, la cui toponomastica ha seguito le vicende storiche del paese, da viale Mussolini a viale della Liberazione, si allineano, ordinati e piuttosto ben conservati, edifici della migliore architettura. 
Complice, forse, il prezzo del carburante e la difficoltà di approvvigionamento, il traffico è scarso a tutte le ore del giorno, privando così Asmara di quel caos di veicoli, rumore, polvere che contraddistingue il cuore di ogni capitale africana e strazia il turista che vi giunge. 

Sui larghi e lindi marciapiedi si affacciano i bar nei quali, insieme alle vetuste macchine per il caffè, ai curiosi espositori per le torte simili ad alberi, si è conservata la tradizione del cappuccino, abbinata alla novità della pizzetta a colazione. 
Ai tavolini all’aperto del Bar Impero e della Pasticceria Moderna, sul lato nord, siedono numerosi gli uomini della città, eleganti nella loro disoccupazione, vera piaga del paese; i più sorseggiano un bicchiere di tè aromatizzato alla menta e verso sera, all’ora del passeggio, è quasi impossibile trovare un posto libero.
Anche i mendicanti, così come i venditori di sigarette, fazzolettini e gomme da masticare, non rispettano la tradizione africana: sono pochi e discreti. 

Poi, superata questa prima impressione di arcadia in terra d’Africa, svoltato l’angolo, le costruzioni iniziano a farsi decrepite, al mercato si riciclano montagne di latta e telai di seggioline da scuola, aratri preistorici sono intenti a preparare la semina in campi di sassi, una successione di serrande sprangate su negozi vuoti, cammelli che trasportano l’acqua in bidoncini gialli riciclati dai contenitori dell’olio, uomini e donne in attesa. 

Tutto concorre a trasmettere un senso di sospesa realtà. 
E’ la realtà di un paese che, dopo l’occupazione, la guerra di indipendenza, il conflitto recente con l’Etiopia, non trova, come molti altri nel continente nero, un suo ruolo, un suo posto nella storia di oggi, una sua economia, una sua felicità.
Intanto incombono e già si presentano, nuovi colonizzatori, i “mercanti” stranieri dei grandi resort turistici alle isole Dhalak, delle prospezioni minerarie e petrolifere. 

Asmara è il risultato di una sorta di “laboratorio di architettura” del periodo coloniale, soprattutto di epoca fascista. 
Come se la progettazione della città fosse stata affidata alla fantasia, alla voglia di sperimentare di giovani architetti e ingegneri dell’epoca, senza imporre loro vincolo alcuno; lasciandoli liberi, eventualmente, di sbagliare, perché si era comunque lontano da casa. Ma Asmara non è solo architettura: è il clima piacevole a tutte le ore, non troppo caldo di giorno né troppo fresco la sera; sono gli incontri per le vie della città e ai tavolini dei bar.
E’ una città piacevole da percorrere e in cui sostare un po’ più a lungo, anche perdendosi nei mercati e nei cortili dei luoghi di culto, chiese o moschee che siano. 

Ai tavolini all’aperto dei bar di Harnet Avenue gli incontri si susseguono piacevoli: la città è piccola, i turisti ancora pochi; per molti signori del posto, non più giovani, è l’occasione di ripassare la lingua appresa molti anni fa. 
Motivo di un approccio può essere il saluto in Italiano, qualche vecchia moneta in vendita, e anche una sorta di malinconica interrogazione sulla storia passata. Sicuramente una esperienza da non perdere il sentirsela raccontare da chi stava dall’altra parte, da chi sta da questa parte. 
Il mercato Medebar, nel caravanserraglio a nord di Enda Mariam, merita una visita, e un ripensamento sul nostro stile di vita. Vi si trovano all’opera decine di artigiani, in minuscole botteghe che paiono accatastate, come lo sono i rottami al loro esterno.
Per lo più fabbri intenti a battere e a saldare; a recuperare ogni sorta di materiale metallico per farne ogni sorta di nuovo utensile: mestoli, pentole, coperchi, reti per i letti, forni e piccoli bracieri dove la fantasia, la voglia di grazia, comunque, dell’artigiano ritaglia la sagoma di un cuore, nella base che già fu una latta per l’olio. 
Accanto ai fabbri, qua e là in crocchio donne accovacciate per terra, intente a sfilettare montagnole di peperoncini rossi e aglio, per la preparazione del berberè, rendono l’aria densa di polveri urticanti e di starnuti. 

Non molto distante è il mercato delle granaglie e delle spezie dove l’eleganza dell’architettura italiana si fa bella di forme, colori, aromi africani: nelle catinelle allineate lungo i banchi è esposta con arte una ampia varietà di lenticchie e fagioli, di ogni forma e colore; montagnole di spezie segnano gli scaffali con minuscole catene montuose dalle pendici fiammeggianti; qua e là un banco di frutta introduce un ordine e una gamma cromatica diversi. Dietro alle merci, nell’ombra, si fatica a scorgere uomini e donne che ingannano l’attesa in gruppi di cicaleccio o assorti in solitario silenzio.
Il rintocco delle campane si mescola al suono del muezzin, quando è l’ora della rispettiva preghiera. 
Asmara vanta chiese e moschee e la possibilità di visitarle; sembra concedere a ciascuno il diritto di praticare il suo culto, persino nella lingua che più gli si confà: il Rosario in Italiano e la preghiera araba, recitati da fedeli in abiti occidentali e donne velate. 
Nessun integralismo, almeno all’apparenza; è questo un paese nel quale puoi essere salutata con un abbraccio, o indotta a ritirar la mano quando cogli l’imbarazzo di chi, uomo, non è ammesso a stringertela.
 

ARCHITETTURA

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Asmara, “laboratorio di architettura” del periodo coloniale, appare oggi ai nostri occhi come una piacevole mescolanza di stili e gusto mediterraneo, amalgamati tra loro dalla calda atmosfera africana.

Girovagando per la città ci si imbatte in edifici pubblici e ville private i cui caratteri rimandano agli stili architettonici elaborati in Europa nei primi decenni del Novecento.

Camminando per Harnet Avenue si incontrano tanto il Classicismo monumentale fascista del Ministero dell’Istruzione, già Casa del Fascio, quanto il Neoromanico lombardo della Cattedrale cattolica; l’eleganza Art Decò del Cinema Impero, l’Eclettismo anche neorinascimentale del Teatro dell’Opera e i riferimenti quasi brunelleschiani del Mercato coperto dei generi alimentari, ora mercato del pesce. 
Il tutto nel tessuto delle case d’appartamento di gusto razionalista e cromatismi africani.
Proseguendo la visita, si alternano le forme aerodinamiche del cinema Capitol, che rimandano all’Espressionismo tedesco di Mendhelson, e quelle futuriste della stazione di servizio Fiat Tagliero; l’Art decò di numerose ville e della Fabbrica del tabacco, con le sue seducenti ali a sbalzo dal profilo curvilineo, poco distanti da una villa italiana degli anni ’20, ora l’Africa pension, e da villa Roma, sede dell’Ambasciata italiana, la cui architettura si rifà alle ville dell’antichità.
Un consiglio: se appena arrivati ad Asmara sarete avvicinati da un cortese signore che vi propone un libro sull’architettura della città, acquistatelo e dedicatevi ad un itinerario mirato a non perdere nemmeno uno degli edifici che vi sono indicati.
Poi, però, concedetevi di ripercorrere le vie senza una meta, con lo sguardo libero di lasciarsi affascinare dalla elegante geometria di lampade decò sulla facciata del Cinema Impero, dal fascino delle mezzelune sulle cupole delle Grande moschea Kulafah Al Rashidin, dalla severità delle colonne del cinema Roma, dai “tukul” a coronamento della Cattedrale copta Enda Mariam, dalle bizzarrie persino rococò di alcuni balconi, e da molto altro ancora. 
 

KEREN

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A meno di 100 km di distanza e circa 1000 metri più in basso di Asmara, è Keren, collegata alla capitale da una strada asfaltata, e in passato dalla ferrovia voluta dagli Italiani, attraverso un suggestivo paesaggio piantumato a cactus.
La città è nota ai nostalgici per i due cimiteri dell’epoca coloniale: il “Cimitero Militare Italiano degli Eroi” e il Cimitero di guerra britannico; la sua posizione strategica, al crocevia delle direzioni di Asmara e Agordat, ne ha fatto il luogo di più battaglie di più guerre. 
Anche qui, per le vie della città si incontrano graziosi esempi di architettura di epoca fascista, come l’immancabile Cinema Impero con le sue geometrie addolcite dai profili curvilinei.
E’ sufficiente addentrarsi nelle vie del mercato per ritrovare la più autentica atmosfera africana. Sulla strada si affacciano bassi edifici con un piccolo portico, la cui copertura di lamiera ondulata si regge su ancor più bassi pilastri. 
La merce è esposta con ordine: distese di variopinti tessuti si alternano a scaffali, pile, trecce e teorie di oggetti di latta, frutto del riciclaggio di svariati contenitori, per lo più di salsa di pomodoro, arancia liofilizzata, insetticida, trasformati in mestoli, casseruole e curiose lampade a olio. 
Di queste ultime, mirabile esempio dell’arte di arrangiarsi con poco, esistono più versioni: le semplici, dotate solo di manico e porta stoppino svitabile e quelle accessoriate, con saldato sopra un piccolo imbuto per la carica dell’olio.
Stante la specializzazione delle singole botteghe, per dotarsi di un lume funzionante è necessario spostarsi al portico accanto dove, con un procedimento simile a un rito, servendosi ad arte di una paglia, un compunto commesso inserisce lo stoppino nel pertugio al quale è destinato.
Poi, si tratta di acquistare l’olio.
Il lunedì mattina, alla periferia della città si tiene il mercato del bestiame: diversi recinti con capre, buoi e cammelli. 
Intorno uomini che, lontano dalla capitale, indossano abiti tradizionali e riparano la testa con il turbante; anche le donne hanno abiti lunghi dalla foggia tradizionale e i colori sgargianti. 
I cammelli, gli stessi dell’ologramma sul visto, osservano indifferenti il via vai o ingaggiano furiose battaglie a colpi di collo. 
E’ curioso come, lontano dai paesi industrializzati, le gamme cromatiche stiano in armonia tra loro: qui il colore dei cammelli è lo stesso del fondo di terra e polvere, i lunghi grembiuli dialogano col colore del cielo.
Poco lontano dalla città sta la “Madonna del baobab”, St. Maryam Dearit: nel tronco di un albero secolare è ricavata la cappella che diede protezione ad un gruppo di soldati italiani sotto il fuoco aereo britannico; accanto sorge il santuario dedicato alla Vergine.
Il luogo merita una visita per l’imponenza dei viali alberati che conducono alla cappella, l’atmosfera sospesa in attesa della folla di fedeli, la cordialità del custode e la splendida veduta sulle vallate circostanti. 

SENAFE 

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Lasciata Asmara in direzione di Kohaito, si incontra la cittadina di Dekemhare, già destinata a diventare una sorta di capitale industriale del paese. 
Delle fabbriche costruite nel periodo coloniale non rimane molto; si narra anche di stabilimenti smontati e rimontati in Etiopia dopo l’annessione.

Della città colpiscono le serrande sprangate dei negozi e il gran numero di uomini seduti al loro esterno, in attesa.
Forse in attesa che la situazione politica del paese cambi, che l’economia riprenda vigore, che le attività commerciali vengano ristabilite.

Ancora nei pressi della città, a pochi metri dalla strada, sorgono maestosi sicomori; i più vicini fanno da verde pensilina sotto cui fervono le più svariate attività e sostano i passeggeri degli autobus diretti alla capitale. 

Procedendo verso sud i villaggi si fanno via via più radi nel paesaggio montuoso; qua e là, nei punti di maggior rilievo, spuntano i campanili delle numerose chiese copte.
Si sale tra pietraie bordate di fichi d’india. 
Lontano dalla stagione delle piogge il territorio è segnato solo dall’affiorare delle rocce e dai terrazzamenti dei monti, con le stoppie dell’ultimo raccolto. 
Là dove si mantengono delle riserve d’acqua, fervono i lavori agricoli negli orti di cavoli, patate e lattuga. 
La terra si lavora con attrezzi rudimentali; l’acqua si trasporta in bidoni a dorso di cammello.

In un paesaggio altrimenti deserto, su una via dove è raro incrociare un veicolo, frequenti sono gli incontri con gruppi di ragazzi diretti o di ritorno dalla scuola. 
Sono inconfondibili: ogni gruppetto uno stesso colore per i maglioncini; nella direzione di Kohaito prevale il verde, con profili gialli allo scollo e ai bordi. 
Incontrandoli, non si può fare a meno di guardarsi attorno alla ricerca dell’edificio scolastico; non sempre se ne scorge uno nelle immediate vicinanze.
Questo spiega, forse, i calorosi saluti degli scolari nella direzione delle poche auto in transito.

Ady Keyh sembra sbucare dal nulla a circa 100 Km dalla capitale: una cittadina ordinata, ampi viali, costruzioni basse; la maggior parte dei negozi rigorosamente sigillati in ossequio alla crisi economica.
Lungo le vie piccole attività commerciali, vendita di frutta e verdura, gestite da gruppi di ragazze sedute sui marciapiedi.
Un albergo recente, discreto, alle porte dell’abitato attende i pochi turisti che, giunti fin qui per visitare i siti archeologici, intendono pernottare in città. 

La corrente, prodotta da un generatore a gasolio, viene erogata solo dalle 19 alle 23 e alcune ore la mattina. Vale la pena di godersi le ultime ore di luce suscitando la curiosità dei bambini e facendoli giocare con il monitor della macchina fotografica; poi, quando sta per fare buio, gustarsi la penombra di un locale, sorseggiando l’immancabile tè.
Difficile immaginare in questo posto remoto altra forma di svago serale. 

La burocrazia dei permessi necessari per uscire dalla capitale, e visitare i diversi siti archeologici, prevede, una volta arrivata la luce, di recarsi al locale ufficio del turismo e mostrare le dovute carte a un cordiale giovane funzionario, probabilmente un mutilato della guerra recente, più interessato alle impressioni sui luoghi che ai permessi. Il nostro accompagnatore, autista e guida, ci suggerisce di esprimere apprezzamento, forse solo per dar lui una personale soddisfazione. 
Sembra effettivamente contento di sentirci dire che siamo molto liete di essere giunte fin qui.

Anche la regina di Saba è stata qui!
Tra i resti archeologici presenti nell’area di Kohaito, il primo che si incontra, appena fuori dal villaggio, è la “diga di Saphira”, una sorta di grande cisterna per l’acqua realizzata con blocchi di pietra squadrati, secondo alcuni archeologi da far risalire al periodo aksumita, secondo altri una diga di epoca precedente. 
A breve distanza, quattro pilastri indicano la presenza di quella che doveva essere una costruzione imponente, e il rimbombo, provocato battendo i piedi sul terreno circostante, rivela la presenza di ambienti sotterranei. 
La guida, un signore addetto anche al controllo dei permessi, ci informa che, oltre alla inclemenza dello scorrere dei millenni, il luogo ha incontrato la furia distruttrice dell’esercito etiope, reo di avere abbattuto altri pilastri i cui resti sono sparsi lì intorno sul terreno. 
Ancora incerte le vere origini e destinazione dell’edificio: tempio, palazzo imperiale, chissà? Al di là di un maestoso canyon, facile da aggirare al seguito di quella sorta di stambecco in ciabatte che ci accompagna, è situata la cosiddetta “Tomba egiziana”.
Una costruzione a pozzo scavata nella pietra e coperta da grossi blocchi lavorati, affacciata sulla gola.
Un luogo protetto dall’imponenza del monte Ambasoira, un suolo dai toni bruni punteggiati dal rosso dell’aloe fiorita, dove è facile desiderare di trascorrere il proprio sonno eterno.

Ripercorrendo il tratto di sterrato che conduce alla strada per Ady Keyh si attraversa il villaggio di Kohaito con le sue misere costruzioni accanto alla imponente moschea, e si incontrano alcuni gruppi isolati di tukul, entrambi testimoni del divario tra lo sviluppo dell’antica civiltà e quello presente.

Ultima città prima del confine con l’Etiopia, Senafe mostra i segni del più recente conflitto, della pochezza della mente umana. 
Tra i diversi edifici vittima dei bombardamenti si distinguono il palazzo delle telecomunicazioni, divenuto riparo per intrepidi asinelli, e l’ospedale. 
Lungo la via passeggiano gruppi di ragazzi sfaccendati, sui marciapiedi sostano numerosi e disoccupati gli uomini; lì intorno camion della C.R.I. carichi di grossi sacchi. Un bimbo gioca solitario rincorrendo il copertone di una ruota di bicicletta, altri due si affaccendano con un carretto trainato da un asino. 
Qui più che altrove l’esperienza della guerra non è ancora superata. 

Nei pressi del villaggio di Metera numerosi sono i resti della civiltà aksumita, per lo più ancora da scavare nonostante gli oltre cento anni di ricerche intercorsi tra le prime scoperte, nel 1868, e l’interruzione degli scavi a seguito delle vicende politiche. 
In uno splendido paesaggi di campi, massicci rocciosi e cactus spuntano i resti di un palazzo dalle caratteristiche simili a quelle delle costruzioni di Aksum, in Etiopia, come i grandi blocchi di pietra squadrata delle tessiture murarie e le imponenti gradinate.
Di fronte al palazzo una scala conduce ad un locale interrato dal quale si pensa possano dipartirsi tre gallerie, dirette ad altrettante località; una porterebbe addirittura ad Aksum.
Per i non addetti alle questioni archeologiche, probabilmente di maggior suggestione è la stele che si trova nei pressi del palazzo, con inciso alla sommità il simbolo pagano del sole al di sopra della luna crescente. 
La stele è stata recentemente ricomposta e nuovamente innalzata, dopo che anche lei fu vittima dell’esercito etiope. 

La suggestione del luogo è data dall’incontro tra un maestoso passato lontano e un più modesto presente, tra i resti archeologici e la vita di oggi: c’è chi, intento ai lavori agricoli nei consueti campi di sassi, si volta a salutare; ci sono le forme dorate e tonde dei covoni di paglia, ordinatamente disposti entro bassi recinti di pietra scura; c’è l’immancabile funzionario governativo che controlla i necessari permessi, facendosi accompagnare dalla giovane figlia come interprete; ci sono i colori degli abiti svolazzanti delle ragazze che giocano tra loro, mentre attingono l’acqua dal pozzo con i caratteristici bidoncini di plastica gialla. 

MASSAUA

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Una nuova strada asfaltata collega Asmara a Massawa passando per Filfil, l’ultima area di foresta tropicale che sopravvive nel paese. La zona è Parco Nazionale; oltre al solito permesso, a un posto di blocco lungo la via è richiesto il pagamento di un biglietto di ingresso. Oltre agli alberi ad alto fusto, il luogo ospita numerose specie di animali, ma anche il solo percorso è di per sé spettacolare per gli impressionanti scorci panoramici che vi si incontrano. 
La strada si snoda in una serie di tornanti a picco sulla foresta, aprendo a scenari sempre diversi.
Sul tragitto si incontrano i consueti gruppi di studenti riconoscibili dal maglioncino colorato, postazioni militari, soldati in cammino e altri nascosti negli anfratti delle rocce.
Sostando qua e là per godersi il panorama, è possibile imbattersi in ragazzini, sbucati non si sa da dove, incuriositi dalla rara presenza di un auto e ben disposti a scambiare qualche parola. 
Lasciata la montagna, il paesaggio torna a farsi brullo; la foresta cede il posto ad una zona semidesertica.
Ai lati della strada qualche desolato villaggio fatto di capanne di arbusti; gruppi di uomini seduti sotto una pergola di rami secchi e plastica, le montagne sullo sfondo.
Sulla via greggi di capre, cammelli e bambini a dorso di asino, di ritorno dall’approvvigionamento d’acqua con taniche gialle e svariati recipienti che pendono dai fianchi dell’animale. 

Giunti nei pressi di Massawa si ha ormai conferma di quanto si dice a proposito delle “quattro stagioni in un giorno solo”: dalla foresta, al deserto, al mare, accompagnati da un continuo variare del clima in poche ore e pochi chilometri, da fresco a caldo torrido.
Come alternativa, è possibile percorrere l’altrettanto suggestiva strada che, incrociando e affiancando a tratti il tracciato della ferrovia, passa per Ghinda e collega la capitale al mare. Se si viaggia in autobus è da prevedere una sosta di circa un’ora, occasione per osservare la vita scorrere lungo le vie, ammirare il muoversi elegante delle signore in lunghi abiti dalle tinte accese, aggiornarsi sul locale colore dei maglioncini da scuola, probabilmente viola coi bordi gialli, e resistere ai pochi bambini addetti alla vendita delle più stravaganti mercanzie: pannocchie arrostite, semi di ogni genere tostati, sacchetti di minuscoli limoni e persino canestri di paglia variopinta intrecciata. 

Arrivare verso sera a Massawa, avendo lasciato da poco la capitale e attraversato la foresta di Filfil è davvero un brutto colpo. 
Al di là del ponte che collega alla terraferma l’isola di Taulud, il primo incontro lo si fa con il monumento a… chi lo sa? Un gruppo di carri armati minacciosi che paiono in procinto di ripartire.
Poi, allineati lungo le vie disposte a scacchiera, ci si imbatte in numerosi edifici dei quali colpisce lo stato di abbandono, l’impressione di un passato, ormai spento, splendore. 
Anche gli alberghi, evidentemente di standard medio alto, ma per lo più deserti e rovinati, contribuiscono all’atmosfera spettrale. 
Solo alcuni piccoli autobus gialli carichi di passeggeri percorrono incessantemente i viali che portano all’isola di Massawa, o Wushi Batsi; unico segno di vita insieme ai ragazzini che raccolgono le fronde di alberi appena potati.
Si dice che la città sia stata tra le più belle sul Mar Rosso; che i suoi edifici riflettano nello stile le varie occupazioni, da quella turca a quella italiana. 
Ora l’impressione è che riflettano piuttosto le varie distruzioni: qui più che altrove sono ancora ben visibili i segni dei diversi conflitti. 

Appena prima del secondo ponte, quello che fu il Palazzo imperiale è sormontato dai resti di una cupola sventrata; al di là del ponte, su Batsi, numerosi edifici portano ancora i segni dei bombardamenti aerei e dei colpi sparati dall’artiglieria etiope nel corso della guerra di liberazione, tra il 1990 e il 1991. 
Tra gli altri colpisce quello che fu del Banco d’Italia, dove sembra che i colpi alle finestre siano stati sparati da poco. Poi, superato il primo sgomento, si riesce ad apprezzare l’architettura delle case turche, vero catalogo di ogni forma possibile di finestra ad arco e archeggiatura, dal quale paiono attingere anche i progettisti impegnati nella ricostruzione della città, oltre che nella ristrutturazione in versione hollywoodiana del Dahlk hotel.
Alcuni degli edifici della parte vecchia sono sorprendentemente belli, oltre che curiosi per via delle texture dei blocchi di materia corallina di cui son fatti.

Ma le sorprese non sono finite: anche qui sono numerosi gli hotel nei quali non si coglie segno di vita: l’hotel Savoya affacciato sul porto, l’hotel Torino e molti altri ancora sparpagliati nella città. 
Anche l’Adulis Sea Food Restaurant, di fronte alla moschea, versa nel più totale abbandono.
Sempre aperto e in attività il celebre Sallam, con i suoi piatti di solo pesce e pane non lievitato, da mangiarsi rigorosamente con le mani.
Ma, insieme a questa sottile angoscia, Massawa riserva la tenerezza della discrezione dei piccoli mendicanti, insieme alla gentilezza dei negozianti delle poche botteghe aperte, che rispondono in Italiano alla più assurda delle richieste espressa in Inglese (ho ceduto alla voglia di patatine… sarà stato lo sconforto…)
E’ necessario lasciar sedare il senso di scoramento; ripercorrerne le vie la giornata seguente, e magari quella seguente ancora, per riuscire a cogliere il fascino della città, lasciarsi incantare del tutto dalla sua architettura e dalla sua gente e, insieme, sperare che un progetto di tutela possa strapparla presto al suo altrimenti inesorabile declino, senza per questo consegnarla nelle mani di frotte di turisti poco rispettosi.

ISOLE

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L’arcipelago delle isole Dahlak è costituito da oltre 200 pezzetti di terra sparpagliati nel Mar Rosso al largo di Massawa, intorno a Dahlak Kebir, l’isola più grande che, a differenza delle altre, vanta alcuni villaggi e un discreto numero di abitanti. 
Per lo più disabitate, spesso appena più grandi di uno scoglio o di un lembo di sabbia nel mare, totalmente brulle o verdi di mangrovie, le isole e il mare attorno a loro si dicono essere ancora una specie di paradiso per la fauna, terrestre e acquatica. 
Raggiungerle presuppone disporre di una barca e dell’immancabile permesso; entrambi possono essere reperiti presso una agenzia di Asmara o direttamente a Massawa. 

In ogni caso è possibile effettuare escursioni di uno o più giorni, pernottando in barca o campeggiando su un’isola, eventualmente disponendo anche delle attrezzature necessarie alle immersioni subacquee. Di tutto quanto necessario, provviste comprese, può farsi carico l’equipaggio della barca che, solitamente, include un cuoco. 
Sembra che le immersioni riservino i più inaspettati incontri, tanto con i relitti delle numerose navi affondate in queste acque, quanto per la straordinaria varietà di pesci e coralli.

Per esser sorpresi da piacevoli inaspettati incontri non è però necessario né allontanarsi tanto dalla terraferma, né mettere la testa sott’acqua, e nemmeno abbandonare il proprio vascello.
A poche miglia da Massawa le isole di Dissei e Madote sono la più comune meta delle escursioni brevi, uno o due giorni, raggiungibili entrambe in poche ore di navigazione, sia con i piccoli motoryacht sia con i sambuchi da pesca.
A Dissei, mentre si pranza vicino al mare, può capitare di ricevere la visita di una superba razza dai pallini turchini, venuta a riva incuriosita dall’andirivieni del canotto che porta a terra quanto serve per condire l’insalata e trascorrere sull’isola la notte. 
Già a pochi metri dalla costa la trasparenza dell’acqua è tale che, anche nuotando in superficie, basta aguzzare la vista per sentirsi trascinare in un mondo di coralli, pesci e conchiglie dalle più bizzarre forme e dai molti colori. 
Sulla battigia, verso sera, centinaia di piccoli paguri, spuntati da non si sa dove, si dirigono lestamente, tutti insieme, verso l’acqua, pronti ad arrestarsi al primo rumore e a rintanarsi nel loro guscio in affitto. 
Chissà se loro potranno resistere all’arrivo di più numerosi turisti, a differenza dei pescatori Afar, il cui villaggio è già stato spostato su un’isola meno pittoresca, per far posto ad un villaggio turistico collegato al Dahlak Hotel di Massawa. 
Al momento i paguri non sembrano preoccupati dalla presenza degli operai del vicino cantiere che, al termine delle ore di lavoro, si spostano lungo la spiaggia in cerca di pesci per la cena, e salutano cortesemente in italiano.

Se a Madote la sabbia fine è cosparsa di piccoli coralli bianchi e rossi tra le conchiglie, su Dissei l’arena è fatta della più sorprendente varietà di frammenti di organismi marini, dalle mille texture nelle più variate sfumature del bianco: una gioia per gli occhi e un discreto fastidio per i piedi.
Pare che le imbarcazioni al momento disponibili a Massawa per queste escursioni non siano molte, così come non molti sono i turisti presenti. 
A seconda dell’agenzia alla quale ci si rivolge per il noleggio, può essere proposto un tradizionale sambuco da pesca, trasformato in barca passeggeri, un piccolo yacht, o uno splendido due alberi, tutto in legno e dalle incerte vele.

A bordo dello yacht di Holiday Eritrea, la navigazione è di per sé stessa fonte di sorprese: per i delfini che a tratti accompagnano la barca; per gli azzurri, i verdi, i turchini delle acque; per il comparire improvviso di un lembo di terra o di uno scoglio che pare una nave; per il fumo denso che esce all’improvviso dai motori; per l’equipaggio. 
Nel corso della navigazione gli uomini di bordo sono costantemente affaccendati: chi a pilotare la barca, chi a pescare, chi a cucinare. 

Il menù prevede pesce in mille modi, verdure multicolori sapientemente accostate e pane fatto in barca. 
La pesca, di grossi pesci, si fa con un filo di nailon avvolto intorno ad un’assicella e un grosso amo; come pesi e galleggianti alcuni pezzi di piombo e pochi ciuffi di alghe. 
Appena si percepisce un pesce all’amo, vengono fermati i motori, il pesce e la lenza recuperati a mani nude; ancora pochi gesti e il pesce è pulito, ridotto in tranci e pronto per la padella. 
Tutto nella più assoluta essenzialità di mezzi, indumenti, gesti, parole, di cuoco, capitano e suo vice. 

Il capitano si scopre essere quel giovane riservato che, senza un movimento o una parola di troppo, pesca, pulisce il pesce, sta al timone, si tuffa alla ricerca degli occhiali caduti in acqua, conduce turisti e bagagli a riva, spiega le carte nautiche, armeggia a mani nude sui motori fumanti e, come gli altri, sorride cordiale e aggiunge fascino a questo viaggio. 
“I hope to meet you again”, capitano.

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